Con sentenza del 9 luglio 2019 nel caso Romeo Castaño c. Belgio, che ho già commentato per EJIL Talk, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il Belgio per violazione dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per il suo rifiuto di consegnare alla Spagna un individuo accusato di aver commesso diversi omicidi a scopo di terrorismo nell’ambito delle operazioni del gruppo indipendentista basco ETA.
È la prima volta che la Corte europea rileva una violazione della Convenzione a seguito della decisione di uno Stato di non consegnare un individuo richiesto con mandato di arresto europeo o attraverso una procedura di estradizione. Tuttavia, una lettura approfondita della sentenza dimostra cha la Corte ha adottato un approccio molto cauto, non sanzionando il rifiuto alla consegna di per sé, bensì le motivazioni superficiali addotte dalle Corti del Belgio onde giustificare il rifiuto della consegna.
I fatti
Il caso è stato portato a Strasburgo dai figli del colonnello Ramón Romeo, che era stato assassinato da un commando dell’ETA nel 1981. Oltre trent’anni dopo, nel 2013, uno dei componenti del commando, indicato con le iniziali N.J.E., era stato individuato in Belgio e immediatamente arrestato in esecuzione di due mandati di arresto europeo emessi dalla Spagna. Le corti del Belgio, tuttavia, decidevano di non procedere alla consegna dell’estradando - che avrebbe dovuto essere rinviato a giudizio in Spagna per le accuse di omicidio - sostenendo che tale consegna lo avrebbe esposto al rischio di subire trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Tale conclusione si fondava su di un rapporto del 2011 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che aveva denunciato l’esistenza, in Spagna, di un regime di detenzione incompatibile con il divieto assoluto di tortura. Secondo le corti del Belgio, il fatto che tale regime di detenzione avrebbe potuto essere applicato all’estradando era sufficiente per escluderne la consegna alla Spagna.
Nel 2015, la Spagna presentava un nuovo mandato di arresto europeo per ottenere la consegna di N.J.E., ma di nuovo le corti del Belgio rifiutavano di eseguirlo, riferendosi ad un recente rapporto con il quale il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite aveva criticato la persistenza, nel sistema legale iberico, del regime di detenzione di massima sicurezza già censurato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nel 2011. Con una sentenza del 27 luglio 2016, la Corte di cassazione belga confermava le pronunce delle corti inferiori e la decisione di non consegnare N.J.E. alla Spagna diveniva definitiva.
Il caso a Strasburgo
Entro sei mesi dalla decisione della Cassazione belga che aveva confermato la sentenza della Corte di appello di rifiuto di eseguire il terzo mandato di arresto europeo spiccato dalla Spagna nei confronti di N.J.E., gli eredi del colonnello Ramón Romeo presentavano ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro il Belgio, sostenendo che il rifiuto della consegna avesse impedito di effettuare un’indagine effettiva a proposito dell’omicidio del padre.
Nel formulare tale doglianza, i ricorrenti invocavano l’art. 6 della Convenzione. Tuttavia, applicando il principio jura novità curia, la Corte europea ha esaminato il caso dal punto di vista delle obbligazioni procedurali derivanti dall’art. 2 CEDU, considerandole, evidentemente, in rapporto di specialità rispetto agli obblighi generali derivanti dal diritto al giusto processo, garantito dall’art. 6 CEDU (Romeo Castaño, para 29-30).
Date queste premesse, la Corte ha esaminato se il rifiuto alla consegna opposto dalle corti del Belgio ai tre mandanti di arresto europeo successivamente emessi dalla Spagna avesse integrato un “difetto di collaborazione” rilevante ai fini della Convenzione (Romeo Castaño, para 38-39).
La conclusione è positiva: secondo la Corte, nel caso di specie il rifiuto della consegna opposto dalle Corti del Belgio non si era basato su ragioni legittime e, pertanto, doveva essere sanzionato ai sensi dell’art. 2 CEDU.
Per giungere a tale conclusione, la Corte ha sottolineato che il rifiuto alla consegna opposto dal Belgio era stato giustificato sulla base di niente altro che due rapporti internazionali generici e risalenti, senza alcuna valutazione concreta del caso specifico (Romeo Castaño, para 86). In pratica, la Corte europea ha rimproverato ai giudici del Belgio di essere stati troppo superficiali, accontentandosi di constatare l’esistenza di un rischio di trattamenti inumani e degradanti a partire dai due rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e del Comitato dei diritti umani, senza condurre alcuna indagine in merito all’effettiva applicazione del regime di detenzione censurato da tali organi internazionali nel caso specifico di N.J.E.
Tale contegno è inaccettabile nell’ambito di una procedura, come quella del mandato di arresto europeo, che si fonda esplicitamente sul principio della “mutual trust” e che, infatti, prevede la possibilità, per lo Stato richiesto, di ottenere senza ritardo dallo Stato richiedente informazioni e chiarimenti, anche con riferimento alle condizioni di detenzione. In particolare, la Corte ha notato che, ai sensi della Decisione quadro sul mandato di arresto europeo e della legislazione che la aveva trasposta nel sistema legale belga, invece di rifiutare la consegna, le autorità avrebbero dovuto richiedere alla Spagna maggiori informazioni sul regime di detenzione cui sarebbe stato sottoposto N.J.E. in attesa del processo (Romeo Castaño, para 89).
Per questa ragione, come è stato notato in altri commenti, non si può concludere che la constatazione di violazione dell’art. 2 CEDU discenda dal rifiuto del Belgio di eseguire i mandati di arresto europeo emessi dalla Spagna. Anzi, la Corte è molto chiara nel precisare che la violazione discende dalla “insufficiente base fattuale” che è stata posta dalle corti del Belgio a fondamento della decisione di rifiuto, e non dal rifiuto in sé considerato (Romeo Castaño, para 92).
L’evoluzione della giurisprudenza CEDU in materia di estradizione
Nonostante tale precisazione, il caso Romeo Castaño segna un’importante evoluzione nella giurisprudenza della Corte europea in materia di estradizione.
Come noto, sin dal caso Soering c. Regno Unito, la Corte europea aveva chiarito che la consegna di una persona richiesta nell’ambito di una procedura di estradizione avrebbe potuto implicare la responsabilità internazionale dello Stato richiesto nel caso in cui l’estradando fosse stato sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 CEDU nello Stato di consegna (cfr. altresì Trabelsi c. Belgio, para 119).
Più di recente, la Corte ha chiarito che lo stesso ragionamento trova applicazione dalla prospettiva dell’art. 6 CEDU, nel caso di estradizione processuale, in ipotesi ove la consegna esponga l’estradando al rischio di subire un “flagrante diniego di giustizia” (cfr. Othman (Abu Qatada) c. Regno Unito, para 258) ed anche nell’ambito di una procedura di consegnata regolata dalla Decisione quadro sul mandato di arresto europeo (cfr., per esempio, Pirozzi c. Belgio, para 57).
Inoltre, la Corte aveva già sanzionato la decisione di uno Stato parte della Convenzione di non richiedere l’estradizione di uno o più sospetti, rilevando una violazione degli obblighi procedurali derivanti dall’art. 2 e dall’art .3 CEDU in alcuni casi specifici (per esempio Agache e altri c. Romania, para 83, e, con riferimento all’Italia, Nasr e Ghali c. Italia, para 270-272).
Tuttavia, la Corte non aveva ancora constatato una violazione della Convenzione con riferimento alla decisione di uno Stato di rifiutare la consegna di un individuo richiesto con mandato di arresto europeo o nell’ambito di una procedura di estradizione.
A ben vedere, questa decisione non è sorprendente: se così ci si può esprimere, la Corte ci era già arrivata vicina in alcune occasioni. Per esempio, nel caso Gray c. Germania, i ricorrenti avevano lamentato la violazione dell’art. 2 CEDU per la decisione delle corti tedesche di non estradare nel Regno Unito un cittadino tedesco accusato di omicidio di un cittadino britannico per negligenza medica, ma la Corte aveva escluso la violazione, considerando che il colpevole era stato giudicato e punito in Germania e che la decisione di punire, invece che estradare, era legittima dal punto di vista del diritto interno e internazionale.
Inoltre, nei casi gemelli Palić c. Bosnia e Herzegovina e Nježić e Štimac c. Croazia, ove i ricorrenti censuravano, sempre dal punto di vista dell’art. 2 CEDU, il fatto che Bosnia ed Erzegovania, e Croazia non avessero ottenuto l’estradizione di alcuni cittadini serbi accusati di gravi crimini contro l’umanità per poterli processare di fronte alle loro corti interne, la Corte europea aveva escluso ogni responsabilità rilevando come fosse stata la Serbia ad opporsi alle richieste di consegna e concludendo che, se assumevano violati i loro diritti, era contro quello Stato che i ricorrenti avrebbero dovuto indirizzare le loro doglianze in base alla Convenzione europea.
Questo è precisamente quello che hanno fatto gli eredi del colonnello Ramón Romeo nel caso che qui si commenta, il che dimostra che, ancora una volta, la Corte ha saputo trarre una conclusione innovativa a partire da principi che già erano latenti nella sua giurisprudenza.
La simmetria fra il diritto dell’Unione europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
Allo stesso tempo, la soluzione raggiunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Romeo Castaño è conforme ai più recenti orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione europea in materia di mandato di arresto europeo.
Infatti, sviluppando la conclusione raggiunta nel 2016 nelle cause riunite C‑404/15 e C‑659/15 PPU, la Corte di Lussemburgo, con sentenza del 25 luglio 2018, resa nella causa C‑220/18 PPU, ha chiarito che: “per garantire il rispetto dell’articolo 4 della Carta nel caso specifico di una persona oggetto del mandato d’arresto europeo, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione, a fronte di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti l’esistenza di siffatte carenze, è tenuta, in seguito, a verificare in modo concreto e preciso se, nelle circostanze della fattispecie, sussistano motivi gravi e comprovati di ritenere che, dopo la sua consegna al suddetto Stato membro, tale persona correrà un rischio reale di essere ivi sottoposta a un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo in parola, a causa delle condizioni nelle quali sarà detenuta nello Stato membro emittente” e che, “[a] tal fine, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, detta autorità deve chiedere all’autorità giudiziaria dello Stato membro emittente di fornire con urgenza ogni informazione complementare necessaria riguardante le condizioni alle quali si prevede di detenere la persona interessata all’interno di tale Stato membro” (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza del 25 luglio 2018, causa C-220/18, para 62-63).
Letto alla luce di tale precedente, il caso Romeo Castaño rappresenta un ulteriore passo avanti nel progressivo processo di “simmetria” fra il diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di Giustizia, e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non si tratta però di una mera riproposizione automatica di soluzioni comuni, ma, come sottolineato dal vicepresidente della Corte europea nella sua opinione concorrente, di una soluzione originale e meticolosa per preservare, da un lato, l’essenza dei diritti garantiti dalla Convenzione, e, dall’altro lato, l’assetto istituzionale previsto dal diritto dell’Unione europea (cfr. Romeo Castaño, Opinione concorrente del giudice Robert Spano e del giudice Darian Pavli, para 8).
In ogni caso, e in attesa di un chiarimento in merito ai punti che rimangono oscuri nella giurisprudenza delle due corti in tema di mandato di arresto europeo, il caso Romeo Castaño introduce nel sistema della Convenzione europea una nuova causa di azione a tutela, non già dell’estradando, bensì delle vittime e del loro diritto a veder l’estradando assicurato alla giustizia nel paese di emissione del mandato di arresto europeo.
Se nello specifico tale precedente potrà incoraggiare l’aumento del contenzioso in tema di mandato di arresto europeo di fronte alla Corte di Strasburgo, da un punto di vista più generale lo stesso rappresenta l’ennesimo tentativo di coniugare e bilanciare i diritti dell’accusato nell’ambito del processo penale con quelli delle vittime.
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